Critica

Qualche giorno fa ho avuto il privilegio di assistere dal vivo alla creazione di alcune opere di Fiorella Fiore. Questo evento mi ha dato la possibilità di comprendere meglio i meccanismi, o meglio bisognerebbe dire, gli automatismi, che ispirano questa artista poliedrica e multiforme. Ho già criticato alcune opere della stessa artista (Quibi se facta Juretionis; Legami fuori 1-2) ma quelle erano opere materiche, sanguigne, ricche di visioni sulla condizione umana. Qui siamo di fronte invece all’ispirazione pura, ad un estro sincero che ha della veggenza. La prima opera è sostanzialmente senza soggetto ma proprio questo ne fa la qualità interiore e superlativa; il soggetto è infatti la stessailluminazione della pittrice. Questa specie di sorgente virtuale che si innalza lentamente ma inesorabilmente fino a propagarsi senza dove, esattamente come una radice di una pianta o come qualcosa di vivo e continuamente pulsante, regge il confronto con le opere degli informali astratti (Henri Michaux e Hans Hartung sopra tutti) e ne riprende in qualche modo sia il dinamismo soggettivo che l’astrattismo geometrico. Ma il tratto di Fiore se ne distacca per una certa sapiente compulsività, per una sorta di magnetica ed ancestrale impetuosità, per una chiara accentuata propensione all’esperimento di riaffioramento quasi violento dell’automatismo, cosi come era stato in Breton per la letteratura. L’analisi visiva di questa opera apparentemente agevole ed elementare nasconde in effetti l’immagine di un pensiero che nega la forma, di un flusso mentale negativo oggettivatosulla carta. Cosa rappresenta esattamente è tuttavia impossibile dirlo, ma proprio questa impossibilità conferisce al disegno il fascino misterioso di tutte le cose che appartengono alla vera arte. Personalmente la mia è una lettura di una rappresentazione che investiga una tensione, che interpreta un disagio, esistenziale o passeggero è difficile dirlo, e che, finalmente trasferito tramite il flusso della china, ha registrato la visione ispirata di questo disagio alla stessa stregua di una lastra o di una lamina che impressiona un corpo.

Le altre due opere sono invece di più comoda lettura. Si tratta di due disegni a matita, anche questi su carta, due metà visi, (e questa secondo me rappresenta la più intrigante particolarità) che denotano un tratto sicuro e consapevole. Possono anche essere considerati sostanzialmente due studi, due esplorazioni per un futuro lavoro elaborato con differenti tecniche. Questi due disegni rievocano alla mia personale immaginazione l’arte africana, in particolare le maschere cerimoniali che nella cultura africana tradizionale, una volta indossate, servono per abbandonare la personalità di chi la indossa per trasformarsi nello spirito che lo raffigura. Uno di questi volti presenta un occhio spalancato, quasi l’ossessione di una visione spaventosa, oppure la raffigurazione nel momento dell’ascesi. Ma quello che colpisce maggiormente di questi due ritratti, rigidamente frontali, è la fissità quasi deistica della loro forma strutturata, quasi fossero una specie di sculture lignee raffiguranti un simbolo ancestrale e dove la linea, il tratto marcato e sempre ben diretto, sembra esplodere da un momento all’altro per invece ricomporsi in una forma sapientemente composita, abile e sottile.

  Cesare Manfredi

“Legami”

David Sylvester, nella sua nota intervista a Francis Bacon, inizia sostenendo che in ogni opera d’arte c’è un misto di intenzione e di qualcosa che coglie l’artista di sorpresa. Di rimando Bacon  asserisce che per quanto lo riguarda la sorpresa prevale sempre sull’intenzione, che tuttavia è presente in quanto senza di essa non si metterebbe nemmeno all’opera.

La sorpresa, dunque, costituisce il processo che può essere considerato il significato stesso dell’opera. “Nelle arti visive devi avere a che fare con ciò che non conosci”, puntualizza la scultrice Ana Maria Pacheco, dichiarando anche lei che è il processo stesso a chiarire l’intenzione, che inizialmente è vaga. Questo principio vale, nello specifico, anche per Fiorella Fiore che definisce le sue opere e il suo modo di lavorare un percorso che la porta verso una dimensione sconosciuta, un cammino da iniziare che via via si rende chiaro. In altri termini si tratta della consapevolezza di intraprendere un processo di chiarificazione valido per se stessa e per gli altri. Ed è proprio così, infatti, che fin dal 1938 anche il filosofo Robin G. Collingwood definiva l’arte moderna e contemporanea: “Il vero artista è una persona che, lottando con il problema di esprimere una certa emozione, dice: voglio renderla chiara”.

Naturalmente per rendere evidente questo processo di chiarificazione, di un sentimento, di impulso o di un pensiero, la sola abilità tecnica non è sufficiente.

E l’arte consiste dunque nel riuscire a dare forma e a comunicare un concetto inizialmente vago e difficile da esprimere.

Fiorella Fiore, proveniente da un lavoro di rigorosa astrazione costruttivista, sceglie ora fili di ferro e corde, chiodi e filo spinato, catene, carte e pagine di giornali, smalti e spray, per iniziare un percorso differente che la porta ad unire l’aspetto etico a quello estetico.

Dunque, se è vero che per accedere al significato di espressioni linguistiche complesse occorre analizzare le singole espressioni costituenti e il modo in cui si combinano, nelle sue opere bisogna rilevare la stretta connessione tra simbolo, concetto e cosa, che si uniscono tra loro con estrema compattezza e univocità.

I suoi lavori sono oggetti estetici in quanto artefatto caratterizzato intenzionalmente da una funzione simbolica che l’artista non si preoccupa di abbellire, ancora meno di decorare.

Le sue opere sono come delle esortazioni che si rivolgono al mondo. Un’arte inseparabile dall’etica e dalla morale, perciò scarna, essenziale, frontale.

Il rigore, se non addirittura l’austerità, e il rifiuto del superfluo creano un forte contrasto con l’immagine della società circostante. In questo senso le sue opere costituiscono una sana provocazione e un superamento, un oltrepassare il limite per il raggiungimento di un mondo invisibile. Il suo è una sorta di appello a forze benefiche, dal buio nasce un aspetto luminoso e scintillante, che supera la dimensione spazio temporale e accenna al legame esistente tra sacrificio e bellezza e che, soprattutto, comunica un sapere.

Così, come afferma nelle sue poesie e nei suoi racconti, la sua vita artistica è giunta ad un ulteriore momento nodale.

La sua è una profonda riflessione, un cammino dentro il disagio scaturito dal sempre più evidente cortocircuito del sistema mondo e, di conseguenza, della vita di ciascuno. Il senso delle sue opere oscilla dalla sfera pubblica a quella privata, come uno specchio impietoso che riflette un’immagine inquietante e lacera, taglia, imprigiona, inchioda, immobilizza, dissangua.

Fiorella Fiore ha sentito la necessità di dare una sua risposta elaborando  un linguaggio morfologicamente diverso e più vicino alla verità della nostra epoca, scaturito dalla necessità di dare voce ad una realtà socio-politica mutata. Così come la sua scrittura è diretta e incisiva, anche le sue recenti opere assumono l’aspetto di un’annotazione veloce, sincera, di un ritratto interiore delle atrocità che ci circondano.

A questo punto le sue tele e le sue installazioni presentano tracce di colori intensi e materiali di uso comune quali quelli sopra accennati.

Da un punto di vista stilistico si avverte una forte parentela con Marcel Duchamp, con l’Arte Concettuale, con l’Arte Povera, seppure a suo modo lei torna decisamente verso un significante pittorico, scultoreo e comunque materico. I suoi lavori presentano un fondo dall’effetto plastificato e magmatico, un sopporto stratificato di carte e di vernici acriliche. I colori predominanti sono un argento metallico o un nero screziato da gesti pittorici violenti che hanno la valenza di ferite e di memorie. Sopra a tutto questo l’artista inizia a tessere la sua tela, ovvero ad elaborare il suo enunciato. Per realizzare ciò fa uso, appunto, di corde, di catene, di chiodi, di filo metallico, ecc. ecc.

In qualche modo, seppure stravolto, ritorna in questa fase tutto il suo precedente lavoro di linee che si intersecano creando ritmo e armonie. Ed è da qui che lei formula il titolo del suo nuovo ciclo: Legami.

Questo termina presenta un consistente spessore psicologico svelando un’ambivalenza di senso e di ambiti. Legame è ciò che ti costringe o che ti unisce, ciò che ti imprigiona comunque, sia che si consideri il termine in ambito sociale che si consideri in ambito familiare; il primo frutto di una violenza e di una limitazione intenzionale ed oggettiva, l’altro frutto volontario di una scelta individuale.

D’altra parte è proprio questa confluenza di mondo esterno e mondo interiore a determinare un risultato estetico che si sta facendo via via più armonioso, meno drammatico e cruento, pur lasciando intatta in ogni opera la sensazione che si tratti di un “oggetto ansioso”.

La fascinazione e la lettura delle opere di Fiorella Fiore derivano dal fatto che comunque esse trasmettono un messaggio chiaro, un input ad oltrepassare la componente estetica per afferrare la dimensione etica che vi si cela. E’ percorrendo questo aspetto che spossiamo considerare i suoi lavori anche come una sorta di filosofia visiva, di ragionamento dialettico che cerca di suggerire una risposta alla questione dell’arte. Fiorella Fiore costruisce un nucleo teorico permanente, inteso come una disobbedienza, un ritorno  “represso” della modernità.

Francesca Pietracci